Archivio mensile:aprile 2020

La libertà delle piccole cose

Ho dormito in una spiaggia deserta con la schiena dolorante per via di quei sassolini. Ho trascorso ore insonne per guardare l’alba. Sono stato rincorso da un cane furioso mentre i miei amici se la ridevano. Ho calciato un pallone scoppio verso una porta immaginaria. Ho mangiato patatine fritte con le mani e bevuto vino scadente in un bicchiere di plastica. Mi sono perso nei vicoli di una Medina marocchina. Ho visto le cicogne fare i nidi sui tralicci della luce e cinghiali difendere i propri cuccioli alla vista dell’uomo. Ho avvertito l’emozione nell’assistere a un arcobaleno che abbracciava i Sieli. Ho cantato inventando le parole di una canzone perché non ne conoscevo il testo. Ho organizzato cortei e manifestazioni, movimenti e associazioni. Ho trascinato me stesso in strade senza ritorno. Ancora una volta ho sbagliato a fidarmi di quella persona. Ho deciso di non perdere mai la speranza, nonostante tutto. Sono stato presuntuoso perché non dovevo dirlo e sono stato troppo educato perché dovevo rispondere a tono. Ho combattuto con tutte le mie forze per le cose in cui credo e mi sono commosso quando a combattere non ero da solo. Ho pianto guardando il finale di un film. Ho corso più che potevo per non perdere l’autobus. Mi sono arrabbiato con l’allenatore che non schierava Baggio e ho suonato il clacson per la vittoria del mondiale. Ho abbracciato amici che non vedevo da tempo e ne ho salutati altri con un sms. Ho provato a dare un colore, una forma e un sapore alla parola libertà. Ho dato per scontato che tutte le cose vissute avrei potuto ripeterle ogni volta che ne avessi avuto voglia. Ho capito che non sempre è così e che la libertà delle piccole cose andrebbe assaporata nel momento in cui ti si presenta, senza rimandare a un domani che, per un virus qualsiasi, potrebbe essere cancellato.

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Un fondo, anzi due, per le imprese: le proposte di Immagina

Viviamo giorni in cui stiamo imparando a riscoprire il nostro tempo e a dargli il giusto valore. Viviamo giorni in cui ci tocca distanziarci e allontanarci l’un l’altro, allo scopo di funzionare come una comunità, di proteggerci e aiutarci a vicenda, così come ha scritto Emiliano Zappalà qualche giorno fa in questo blog.

Ma viviamo anche giorni di angoscia, di ansia, di dolore, di difficoltà a immaginare il domani, a proiettarci in un futuro che assume, sempre più, le sembianze di un buono spesa e di un affitto da pagare.

Per queste (e molte altre) ragioni, Immagina sta provando a dare supporto all’azione amministrativa del nostro Comune con proposte e iniziative concrete.

Lo abbiamo fatto nelle scorse settimane, rendendo i nostri canali social strumenti di informazione costante e creando un numero di assistenza whatsapp per la presentazione delle domande “buoni spesa”.

Lo abbiamo fatto proponendo all’Amministrazione la sospensione dei tributi comunali fino al 31.05.2020, l’ampliamento della platea dei beneficiari dei “buoni spesa” stanziati dalla Protezione Civile Nazionale, la liberalizzazione della rete Wi-Fi e la richiesta di istituzione di un supporto pedagogico e psicologico per tutte le famiglie in difficoltà.

Oggi, raccogliendo gli umori dei commercianti e degli artigiani locali, abbiamo presentato due proposte che, speriamo, possano ricevere l’attenzione dovuta. Il Decreto “Cura Italia”, infatti, ha concesso agli Enti Locali la sospensione del pagamento della quota capitale per i mutui accesi con la Cassa Depositi e Prestiti a condizione che le somme risparmiate vengano spese per i bisogni insorti a seguito all’emergenza Covid-19. La quota ammortamento per mutui e prestiti obbligazionari del nostro Comune per l’anno 2020 ammonta a 164.371,52 Euro.

Con tali somme chiediamo all’Amministrazione di creare due fondi:

  • un fondo per liquidare la somma di 1.000 Euro a fondo perduto a tutte le imprese con sede nel nostro territorio, attestando il periodo di chiusura lavorativa imposta da Decreto e la diminuzione del volume d’affari;
  •  un fondo per contribuire, con tetto massimo di 500 Euro, al pagamento del canone di locazione per gli immobili utilizzati dalle imprese per lo svolgimento della propria attività lavorativa.

Con queste iniziative proviamo a dare supporto all’azione della politica locale, tentando di illuminare, con la nostra lampadina di speranza, gli angoli più bui di questa pandemia. Grazie a tutti i cittadini che, contattandoci in queste settimane, ci hanno dato la possibilità di riscoprire il senso autentico della parola “rappresentanza”.

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Non tutte le pandemie vengono per nuocere

Oggi è il giorno numero 15 di quello che per una settimana è stato un auto-isolamento volontario e che poi è diventato isolamento quasi obbligatorio (perché il Regno Unito non ha ancora le idee chiare e sta aspettando che l’intero Gabinetto di governo contragga il Covid-19 prima di decidere se è davvero arrivata l’ora di dichiararsi adulti).

Fin qui nessuno scenario apocalittico o post-apocalittico. Per le strade ci sono ancora macchine e gente che passeggia e fattorini che portano le consegne e joggers salutisti che si sgranchiscono le gambe. Ma non nego che ci sia una certa attesa. Non dell’apocalisse o della post-apocalisse. Di altro. In realtà non credo di condividere qui un pensiero comune, ma piuttosto una considerazione personale.

Da anni ormai non faccio altro che leggere libri che parlano di fine dell’esperienza, di scomparsa dei conflitti (in Occidente), di generazione senza traumi e (perché no?!) anche di fine della storia.  L’idea alla base di molte teorie filosofiche e sociologiche è che viviamo in un mondo di plastica, in cui la realtà è stata declinata al secondo grado, alla sua dimensione virtuale e di riflesso. Un mondo in cui ciascuno di noi è libero di selezionare i suoi fatti, le sue verità e di creare svariati alter-ego sui social.

L’unico evento che abbiamo vissuto in tempi recenti (che è stato definito da alcuni critici italiani frettolosi e disattenti come il grande spartiacque epocale) è stato poi in fondo percepito anche quello come un fenomeno mediatico. Le torri trafitte dai boeing, il fumo, la polvere ovunque, le fiamme e quei crolli verticali, simmetrici, perfetti. Come ci ha spiegato Slavoj Žižek – uno dei più fini pensatori del secolo attuale – l’11 settembre è stato esperito dalla gran parte del mondo come episodio de-realizzato, come serie di rimandi televisivi; dunque più come narrazione spettacolarizzata che come fatto e tragedia reale.

E poi arriva il coronavirus, un cosino grande 50-200 nanometri che cambia le nostre vite, forse per sempre. Arrivato nel silenzio più assoluto, come solo la storia sa fare. Ora sappiamo che il grande evento che non stavamo aspettando ha un nome: pandemia. Una parola che pochi di noi credo abbiano mai pronunciato in vita loro, ma che adesso è il nostro mantra quotidiano.
Però lascio ad altri, molto più attrezzati di me, le considerazioni che afferiscono al campo medico, economico o più propriamente politico. Io mi limito qui a suggerire alcuni spunti (che non hanno altra ambizione che di lasciare il tempo che trovano).

Innanzitutto, l’ironia e la paradossalità di tutto questo. La pandemia è stata definita come una guerra, come la più grande tragedia dalla seconda guerra mondiale. Un cataclisma piombato inaspettato sulle nostre teste. Eppure, questo appuntamento con la storia, sotto certi punti di vista, non potrebbe essere più beffardo (oltre che naturalmente tragico e spietato). Questo perché, a differenza dal passato, la pandemia richiede l’eroismo incommensurabile e commovente di pochi – di quei medici, infermieri e operatori sanitari il cui valore assoluto non credo sia ancora stato capito e apprezzato a pieno –, mentre a tutti gli altri solo il più smaccato degli anti-eroismi: l’immobilità, la rinuncia, la sottrazione, l’inattività totale. Mentre pochi sono chiamati a rischiare tutto ciò che hanno per solo senso di dovere e responsabilità – per onorare il patto solennissimo stipulato con Ippocrate – a noi altri viene intimato invece di non fare nulla. Mentre alcuni (compresi naturalmente i pazienti e le loro famiglie) sono chiamati a toccare con mano l’inferno, noi altri (almeno in questa fase iniziale) vivremo anche la pandemia come un fatto di seconda mano, come una cosa raccontata, come la rappresentazione di qualcosa che sta accadendo in un altrove di cui noi – ci dicono – faremmo parte.

Giuro che ci ho provato, ma davvero non sono riuscito a non cogliere in contrappasso dantesco di tutto questo. Zygmunt Bauman – che invece è stato il più fine pensatore anche di questo secolo – ha definito la nostra come «società individualizzata», fatta di monadi separate e incapaci di condividere obiettivi comuni in una comune agorà. In cui la progettazione del futuro è il risultato semi-casuale del conflitto di desideri individuali e mai un disegno armonioso e collettivo.
Adesso però, improvvisamente, siamo tutti obbligati ad asserragliarci nelle nostre proprietà private, a chiuderci a riccio nelle nostre sfere personali. E – nella maggior parte dei casi – siamo chiamati a farlo non tanto (percentuali alla mano) per tutelare noi stessi, ma gli altri, i più deboli, i più a rischio. Che è esattamente la funzione evoluzionistica e zoologica che svolge un qualunque gruppo. In altre parole – non so se cogliete il sottile sarcasmo del caso – ci tocca distanziarci e allontanarci l’un l’altro, allo scopo di funzionare come una comunità. Di proteggerci ed aiutarci a vicenda.

Non posso allora che sperare che questo contrappasso sia stato pensato dal fato con un intento purgatoriale, piuttosto che infernale, ovvero espiatorio anziché eterno e definitivo. Spero che ci possa servire da insegnamento. Che ci aiuti a ripensare e ridisegnare tutti assieme – ma ognuno a casa propria, eh – i confini del politico, di questa cosa bellissima che chiamiamo collettività. A capire che se il pugno può facilmente spezzare uno ramoscello, non può invece spezzarne, cento, trecento, mille. Che il mio diritto alla felicità comincia solo dove finisce il mio dovere di rispettare la felicità altrui.
A smettere di pensarci come uomini, per vederci finalmente come umanità. Non tante cose distinte e separate, ma una sola, unita. Perché se il virus ci attacca tutti, senza fare distinzioni, è solo perché siamo tutti uguali. E nel mondo degli uguali non c’è nessuno più uguale dell’altro.

La mia piccola speranza, che lascia il tempo che trova, è che questo tipo di riflessione possa trovare terreno fertile nel domani vicino del dopo-pandemia. Studiando letteratura so che le distopie, normalmente nascono come anticamera per i disegni più utopici. Inoltre, amando l’immensa Susan Sontag, so anche che ogni malattia è anche una metafora. In questo caso può diventare metafora delle sfide estreme che, volenti o nolenti e come collettivo, saremo costretti ad affrontare nei prossimi decenni.

Se ci renderemo conto di tutto questo, forse sarà perfino valsa la pena di sacrificare un pezzo delle nostre economie (che poi in piccola parte, diciamocelo chiaro, sono mondi di carta che si reggono sui conti di gente che i conti non li ha mai fatti e non li sa fare).

Questo è il mio messaggio nella bottiglia.
Interno, sera, 29/3/2020.

Griffy il Bottaio

 

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