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Non tutte le pandemie vengono per nuocere

Oggi è il giorno numero 15 di quello che per una settimana è stato un auto-isolamento volontario e che poi è diventato isolamento quasi obbligatorio (perché il Regno Unito non ha ancora le idee chiare e sta aspettando che l’intero Gabinetto di governo contragga il Covid-19 prima di decidere se è davvero arrivata l’ora di dichiararsi adulti).

Fin qui nessuno scenario apocalittico o post-apocalittico. Per le strade ci sono ancora macchine e gente che passeggia e fattorini che portano le consegne e joggers salutisti che si sgranchiscono le gambe. Ma non nego che ci sia una certa attesa. Non dell’apocalisse o della post-apocalisse. Di altro. In realtà non credo di condividere qui un pensiero comune, ma piuttosto una considerazione personale.

Da anni ormai non faccio altro che leggere libri che parlano di fine dell’esperienza, di scomparsa dei conflitti (in Occidente), di generazione senza traumi e (perché no?!) anche di fine della storia.  L’idea alla base di molte teorie filosofiche e sociologiche è che viviamo in un mondo di plastica, in cui la realtà è stata declinata al secondo grado, alla sua dimensione virtuale e di riflesso. Un mondo in cui ciascuno di noi è libero di selezionare i suoi fatti, le sue verità e di creare svariati alter-ego sui social.

L’unico evento che abbiamo vissuto in tempi recenti (che è stato definito da alcuni critici italiani frettolosi e disattenti come il grande spartiacque epocale) è stato poi in fondo percepito anche quello come un fenomeno mediatico. Le torri trafitte dai boeing, il fumo, la polvere ovunque, le fiamme e quei crolli verticali, simmetrici, perfetti. Come ci ha spiegato Slavoj Žižek – uno dei più fini pensatori del secolo attuale – l’11 settembre è stato esperito dalla gran parte del mondo come episodio de-realizzato, come serie di rimandi televisivi; dunque più come narrazione spettacolarizzata che come fatto e tragedia reale.

E poi arriva il coronavirus, un cosino grande 50-200 nanometri che cambia le nostre vite, forse per sempre. Arrivato nel silenzio più assoluto, come solo la storia sa fare. Ora sappiamo che il grande evento che non stavamo aspettando ha un nome: pandemia. Una parola che pochi di noi credo abbiano mai pronunciato in vita loro, ma che adesso è il nostro mantra quotidiano.
Però lascio ad altri, molto più attrezzati di me, le considerazioni che afferiscono al campo medico, economico o più propriamente politico. Io mi limito qui a suggerire alcuni spunti (che non hanno altra ambizione che di lasciare il tempo che trovano).

Innanzitutto, l’ironia e la paradossalità di tutto questo. La pandemia è stata definita come una guerra, come la più grande tragedia dalla seconda guerra mondiale. Un cataclisma piombato inaspettato sulle nostre teste. Eppure, questo appuntamento con la storia, sotto certi punti di vista, non potrebbe essere più beffardo (oltre che naturalmente tragico e spietato). Questo perché, a differenza dal passato, la pandemia richiede l’eroismo incommensurabile e commovente di pochi – di quei medici, infermieri e operatori sanitari il cui valore assoluto non credo sia ancora stato capito e apprezzato a pieno –, mentre a tutti gli altri solo il più smaccato degli anti-eroismi: l’immobilità, la rinuncia, la sottrazione, l’inattività totale. Mentre pochi sono chiamati a rischiare tutto ciò che hanno per solo senso di dovere e responsabilità – per onorare il patto solennissimo stipulato con Ippocrate – a noi altri viene intimato invece di non fare nulla. Mentre alcuni (compresi naturalmente i pazienti e le loro famiglie) sono chiamati a toccare con mano l’inferno, noi altri (almeno in questa fase iniziale) vivremo anche la pandemia come un fatto di seconda mano, come una cosa raccontata, come la rappresentazione di qualcosa che sta accadendo in un altrove di cui noi – ci dicono – faremmo parte.

Giuro che ci ho provato, ma davvero non sono riuscito a non cogliere in contrappasso dantesco di tutto questo. Zygmunt Bauman – che invece è stato il più fine pensatore anche di questo secolo – ha definito la nostra come «società individualizzata», fatta di monadi separate e incapaci di condividere obiettivi comuni in una comune agorà. In cui la progettazione del futuro è il risultato semi-casuale del conflitto di desideri individuali e mai un disegno armonioso e collettivo.
Adesso però, improvvisamente, siamo tutti obbligati ad asserragliarci nelle nostre proprietà private, a chiuderci a riccio nelle nostre sfere personali. E – nella maggior parte dei casi – siamo chiamati a farlo non tanto (percentuali alla mano) per tutelare noi stessi, ma gli altri, i più deboli, i più a rischio. Che è esattamente la funzione evoluzionistica e zoologica che svolge un qualunque gruppo. In altre parole – non so se cogliete il sottile sarcasmo del caso – ci tocca distanziarci e allontanarci l’un l’altro, allo scopo di funzionare come una comunità. Di proteggerci ed aiutarci a vicenda.

Non posso allora che sperare che questo contrappasso sia stato pensato dal fato con un intento purgatoriale, piuttosto che infernale, ovvero espiatorio anziché eterno e definitivo. Spero che ci possa servire da insegnamento. Che ci aiuti a ripensare e ridisegnare tutti assieme – ma ognuno a casa propria, eh – i confini del politico, di questa cosa bellissima che chiamiamo collettività. A capire che se il pugno può facilmente spezzare uno ramoscello, non può invece spezzarne, cento, trecento, mille. Che il mio diritto alla felicità comincia solo dove finisce il mio dovere di rispettare la felicità altrui.
A smettere di pensarci come uomini, per vederci finalmente come umanità. Non tante cose distinte e separate, ma una sola, unita. Perché se il virus ci attacca tutti, senza fare distinzioni, è solo perché siamo tutti uguali. E nel mondo degli uguali non c’è nessuno più uguale dell’altro.

La mia piccola speranza, che lascia il tempo che trova, è che questo tipo di riflessione possa trovare terreno fertile nel domani vicino del dopo-pandemia. Studiando letteratura so che le distopie, normalmente nascono come anticamera per i disegni più utopici. Inoltre, amando l’immensa Susan Sontag, so anche che ogni malattia è anche una metafora. In questo caso può diventare metafora delle sfide estreme che, volenti o nolenti e come collettivo, saremo costretti ad affrontare nei prossimi decenni.

Se ci renderemo conto di tutto questo, forse sarà perfino valsa la pena di sacrificare un pezzo delle nostre economie (che poi in piccola parte, diciamocelo chiaro, sono mondi di carta che si reggono sui conti di gente che i conti non li ha mai fatti e non li sa fare).

Questo è il mio messaggio nella bottiglia.
Interno, sera, 29/3/2020.

Griffy il Bottaio

 

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Per un pugno di Euro (no tax sul diritto allo studio)

A scrivere è Matteo Gallone che ha seguito da vicino, essendo membro della commissione consiliare permanente di competenza, la vicenda compartecipazione per il servizio di trasporto scolastico.

Mai avrei pensato di trovarmi a lottare contro l’istituzione di una nuova Tassa che il nostro Comune intende introdurre. Una tassa che colpirebbe il diritto allo studio, attraverso l’approvazione dell’apposito regolamento comunale per il servizio del trasporto scolastico.
Una manovra che introdurrebbe due tasse: la prima colpirebbe centinaia di studenti e di famiglie, introducendo per la prima volta nel nostro comune una tariffa da pagare per poter usufruire dei servizi di trasporto scolastico comunale (Scuolabus); la seconda definita di “compartecipazione”, interesserebbe invece i fruitori del servizio di trasporto scolastico extraurbano degli studenti pendolari (Ast/Fce).

Tutto questo in totale contrasto con la legge regionale n. 24 (art. 1 e 2) del 26 maggio 1973.

Il Gruppo consiliare “Immagina” su questi provvedimenti è sceso in trincea a difesa del diritto allo studio e contro ogni tipo di Tassa o Balzello che vada a toccare e ledere gli studenti e le famiglie.

Noi di Immagina abbiamo sostenuto, anche nel corso dei vari consigli comunali, che i servizi riservati ai giovani e agli studenti in particolare, debbano continuare a essere GRATIS, così come espressamente scritto nella legislazione regionale, che nessuna circolare o interpretazione potrà mai modificare.

Ben vengano i miglioramenti del servizio e le nuove tratte che si intendono istituire, ma sempre nel rispetto della normativa di cui:

Art. 1 della L.R. 1973 n. 24 testualmente recita “La Regione Siciliana garantisce attraverso i comuni il trasporto gratuito agli alunni della scuola dell’obbligo e delle scuole medie superiori residenti nel comune

Art. 2 della L.R. 1973 n.24 testualmente recita “Il Sindaco, sulla base delle domande degli aventi diritto e delle certificazioni attestanti la frequenza scolastica, provvede ad assicurare agli alunni il trasporto gratuito..

Per tutto questo abbiamo chiesto, con una apposita nota, il ritiro in autotutela della delibera di Consiglio Comunale n. 31 del 07/08/2019 (che istituisce la nuova tassa). Ci aspettiamo che l’Amministrazione Comunale dia prova di maturità e stia al fianco degli studenti e delle loro famiglie attraverso la copertura integrale dei costi con fondi comunali.

NO TASSE SUL DIRITTO ALLO STUDIO.
Sì AL MIGLIORAMENTO DEI SERVIZI.
INVESTIAMO SUL FUTURO DEL NOSTRI GIOVANI.

Ringraziando Matteo per il contributo, aggiungo che siamo pronti a indire una petizione popolare per chiedere all’Amministrazione Comunale di ripensare a quanto fatto e di tornare sulla retta via; quella della sacralità del diritto allo studio.

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Quando lo sport incontra la politica

Ci sono parecchie cose che non sappiamo, ciascuno di noi. Perché le ignoriamo, perché non ci interessano, perché nessuno ce le ha mai dette. E poi ci sono cose che semplicemente non si possono ignorare. Per esempio, sappiamo tutti chi sia Valentino Rossi, Cristiano Ronaldo, Maradona, Michael Jordan. Stelle dello sport, fenomeni eccezionali che hanno esaltato gli appassionati con i loro numeri. Così come sappiamo tutti che Usain Bolt è l’uomo più veloce del mondo, forse il più veloce della storia.

Non sappiamo invece che del circolo ristretto dei velocisti di tutti i tempi fa parte anche un certo Thomas C. Smith, meglio conosciuto come Tommie. Il primo uomo che si ricordi ad essere sceso sotto il muro dei 20” nei 200 metri. Alla fine degli anni ’70 Tommie Smith aveva già battuto il record dei 100, dei 200 e dei 400 metri. Era l’uomo più veloce del pianeta. Ma nessuno lo ricordava già più; così come nessuno lo ricorda oggi.

Nel 1968, ai Giochi Olimpici di Città del Messico, giusto dopo avere infranto il record dei 200, Tommie compì un gesto che non gli fui mai perdonato: siamo nel bel mezzo della premiazione, Tommie Smith sale sul gradino più alto del podio; un po’ più in basso sta il suo connazionale John Carlos, medaglia di bronzo; attorno a loro i 63mila spettatori dell’Estadio Olimpico Universitario e il mondo intero. Gli atleti ricevono le loro medaglie, il pubblico applaude, attacca The Star-Spangled Banner, l’inno americano. A quel punto, Tommie e John fanno due cose in sequenza, banali quanto estreme: abbassano piano la testa e alzano in aria due pugni guantati di nero. Il silenzio nello stadio si fa all’improvviso irreale. Nessuno ha la forza di fiatare. L’inno procede mentre i due velocisti rimangono così, immobili, come statue greche. E così rimarranno nell’immaginario collettivo. In eterno.

Tommie Smith e John Carlos non sono stati solo formidabili atleti olimpici; erano anche due attivisti. Due attivisti afroamericani. E quel pugno alzato di fronte al mondo era il gesto simbolo del black power, il movimento che negli anni sessanta si batteva per i diritti dei neri d’America. Quei due uomini soli di fronte al mondo avevano osato piantare lo spillo della politica dentro il cuore tenero dello sport, il regno dell’intrattenimento puro. E per questo furono dannati per sempre.

Colin Kaepernick è l’ex quarterback dei San Francisco 49ers. Un più che discreto passatore, un fenomeno nella corsa palla in mano. Nel 2013 disputò la 47esima edizione del Super Bowl a New Orleans, contro i Baltimore Ravens. Perse per soli tre punti, 34 a 31. Ma nessuno lo ricorda per questo. Tre anni dopo Kaepernick si rese famoso per un’altra impresa, ben più importante e molto meno sportiva: nel pre-partita di un gara NFL, si inginocchiò nel bel mezzo dell’inno americano.

Era il suo modo per protestare contro l’amministrazione di Donald Trump e contro la discriminazione, più presente che mai nel Paese, nei confronti degli afroamericani. Fu un gesto coraggioso, che ne inspirò altri. I giocatori afroamericani del football americano iniziarono uno ad uno a inginocchiarsi prima delle partite. Poi seguirono i giocatori di MLB, la lega di Baseball professionistico americana. Poi iniziarono a inginocchiarsi anche i bianchi, in segno di solidarietà. Non erano tutti a farlo, certo, solo quelli che sentivano di avere una causa per cui battersi, eppure erano già in parecchi. Una protesta silenziosa, pacata e pacifica, che proprio per questo fece tremare le istituzioni. Un gesto che doveva smettere al più presto. Il presidente fece pressioni sulle Leghe che, a loro volta fecero pressione sulle squadre, che fecero pressione sui giocatori. Lentamente la protesta fu arginata.

Colin Kepernick è oggi un disoccupato. Nessuna squadra ha accettato di offrirgli  un contratto. Qualche mese fa il giocatore ha citato per danni l’intera NFL.

Il concetto di fondo che si nasconde dietro le storie di Tommie e Colin è lo stesso: lo sport e la politica devono rimanere due mondi separati, e guai a mischiarli. Uno stadio non è il luogo adatto per dar voce alle proprie idee politiche. Ma bensì un punto di ritrovo e di mera evasione, momento di riposo e distrazione dalle fatiche della vita. . Non si può essere sportivi e attivisti allo stesso tempo.

Ho sempre pensato che “attivista” sia una delle parole che suonano più strane nella lingua italiana (e probabilmente anche nelle altre). Perché è una parola che non ha un contrario. Esiste un attivista, ma non esiste un “passivista”. Ne ho dedotto che il contrario di attivista infatti, siano tutti gli altri. Siamo noi. Siamo tutti noi nel momento in cui voltiamo lo sguardo, ci spingiamo a non guardare, ci convinciamo che quella cosa che ci sta succedendo attorno forse non sta poi proprio succedendo, che quel problema che ci riguarda da vicino, forse poi non riguarda proprio noi. Che i politici corrotti, i maltrattamenti sul lavoro, le morti bianche, le discariche abusive, i disservizi sociali, lo sfruttamento dell’immigrazione non siano cose per cui ci spetti di sacrificare il nostro “tempo libero”.

I non-attivisti siamo tutti noi che ci obblighiamo a un costante sforzo di distrazione, anche mentre l’orrore e l’ingiustizia intorno a noi stanno dilagando (inutile fare qui delle citazioni storiche: sarebbero davvero troppo facili e ovvie).

Forse per questo, l’idea che la politica e lo sport debbano stare separati è una delle cose che forse mi trova più in disaccordo su questa terra. Lo sport è in un certo senso politica allo stato puro: è un momento di incontro, di scambio (anche se solo di emozioni e calore), di scontro (si spera simbolico), di condivisione. Rimango pertanto convinto che uno stadio olimpico – lo stesso in cui centinaia di atleti di colore gareggiano per il piacere e la goduria delle folle – sia il posto più giusto in cui gridare, per dirne una, che i neri sono esattamente uguali bianchi e che alla stessa maniera vanno trattati. Anche se alla fine non lo si grida, e ci si limita ad alzare un pugno in aria.

Credo che di questa cosa fosse cosciente anche lo stesso The Donald. Altrimenti non si spiega il perché abbia cercato di sopprimere la protesta dispiegando tutte le armi a sua disposizione. Il presidente sa bene che una coscienza, una volta svegliata, è molto difficile da rimettere a nanna.

Vengono in mente, in conclusione, le parole che Martin Luther King scrisse nel 1963, nella lettera dalla prigione di Birmingham: «La più subdola barriera per i negri, lungo il loro percorso verso la liberta, non è il suprematista bianco o il membro del Ku Klux Klan, ma il moderato che è più devoto all’ordine che alla giustizia; che preferisce una pace forzata, che è solo l’assenza di tensioni, a una pace reale che è lo sprigionarsi della giustizia; che dice costantemente, “sono d’accordo con il tuo obiettivo, ma non posso accettare i tuoi metodi d’azione”» (mia la traduzione).

Tommie Smith non fu invitato alla Casa Bianca come tutte le altre medaglie d’oro, dopo la sua storica vittoria a Città del Messico, nel ‘68. Ad invitarlo ci ha pensato, quasi cinquanta anni dopo, un altro presidente, nel tentativo di riabilitare la sua memoria: Barack Hussein Obama. Per l’occasione Tommie portò in omaggio una foto che lo ritrae mentre riceve la staffetta nella 4×400 del 1966 (con quella squadra con cui aveva infranto l’ennesimo record del mondo). Dietro la foto c’era scritto «il testimone non è caduto».

Si riferisce allo stesso testimone che tutti noi conosciamo benissimo: quello che ci siamo visti passare infinite volte nel corso della nostra vita, mentre guardavamo la tv, ascoltavamo una canzone, leggevamo un libro, camminavamo per strada, bevevamo con gli amici; quello che ci è viene teso ogni volta che vediamo una stortura o una vessazione. E ogni volta che ciò accade ci si spalancano di fronte tre possibilità: possiamo girarci dall’altra parte e fare finta di nulla; possiamo prenderlo con noncuranza e poi lasciarlo cadere; oppure possiamo stringerlo forte e iniziare a correre. Correre con tutte le nostre forze.

 

Lo spunto per questo pezzo nasce dalla lettura di un articolo pubblicato su “The Atlantic” e tradotto su “Internazionale”  n. 1277

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L’indifferenza è complice

Il 28 Ottobre a Predappio si è svolta una manifestazione, regolarmente autorizzata, in cui duemila nostalgici delle gesta (o come meglio diremmo noi “de valintizzi”) del duce e del suo partito, hanno ricordato la famosa marcia su Roma, avvenuta nello stesso giorno del 1922. Lo hanno fatto andando in giro a mimare serenamente il saluto romano, intonando “boia chi molla!” e mostrando con estremo orgoglio simboli e magliette da non riuscire a credere ai propri occhi.

A suscitare particolarmente scalpore poi è stata la maglia indossata dalla candidata sindaco delle ultime elezioni di Budrio, Selene Ticchi, esponente di Forza Nuova, sulla quale la scritta “Auschwitzland”, stilizzava il celebre simbolo della Walt Disney e associava la triste realtà dei campi di concentramento a quella dei parchi divertimento.

Non è mia intenzione, con queste righe, discutere della “marea nera” che ormai, sotto gli occhi di tutti, sta ricoprendo il mondo intero. Basti vedere l’ultimo schiaffo dato in faccia a quelle speranze di resistenza che il mio amico Emiliano, sempre tra le pagine di questo blog, aveva fatto emergere con forza qualche settimana fa. Lo schiaffo in questione ha un nome e un cognome, Jair Bolsonaro, il nuovo presidente del Brasile: dichiaratosi nostalgico del vecchio Reich e convinto omofobo, xenofobo, misogino e chi più ne ha più ne metta. Anche il Brasile ha scelto questa strada, Salvini gradisce e si complimenta. Avanti cosi.

Ma non voglio nemmeno parlare in queste righe del ruolo del nostro Governo che fintamente prova a discostarsi da quanto accaduto a Predappio. Fintamente perché il Prefetto stesso ha dichiarato che la scelta di autorizzare la manifestazione è stata presa in concerto con il Ministero dell’Interno e, ahimè, ha anche affermato che vietarla avrebbe comportato una compressione della libera manifestazione del pensiero consacrata nella nostra Costituzione (Si! L’ha dichiarato davvero); e fintamente perché nello stesso periodo, con il del Decreto Fiscale, lo stesso governo ha tentato di alleggerire la pressione del fisco con un bel taglio di 50 milioni alle pensioni in favore dei reduci di guerra e dei perseguitati politici e razziali dunque anche alle pensioni per le vittime delle vergognose leggi razziali. Grazie a Mattarella e al suo monito al Governo, si è poi fatto dietrofront.

Ciò che mi preme mettere in luce invece è che in Italia esistono due leggi che vietano e condannano l’apologia al fascismo: la legge Scelba del 1952 e la legge Mancino del 1993. In realtà, nella scorsa legislatura, fu proposta anche una nuova legge che avrebbe rafforzato l’attuale impianto normativo, tramite l’inserimento esplicito del reato di propaganda del regime nazi-fascista, e con la quale, dunque, si sarebbe vietata qualunque forma di propagandismo effettuato anche tramite immagini e gesti (tra i quali il saluto romano o la diffusione e la vendita di beni raffiguranti persone, immagini, o simboli riferiti ai regimi suddetti). L’approvazione si arenò con lo scioglimento delle Camere e non se n’è mai più parlato (casualmente, ci mancherebbe!). Tuttavia le leggi attualmente presenti nel nostro ordinamento consentono comunque di punire la propaganda nera, infatti la legge Scelba non prende di mira solo la riorganizzazione del disciolto partito fascista ma appunto anche chi “con la propria attività esalta esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni di carattere fascista”. La legge Mancino invece vieta la propaganda di idee fondate sull’odio e sulla superiorità razziale e quindi, senz’altro, anche azioni e gesti che inneggino al regime fascista. Entrambe le leggi, prevedono la reclusione (da cinque a dodici anni la prima, da sei mesi a quattro anni la seconda) per chi si renda reo di tali condotte rievocative.

Alla luce di quanto detto rimane pertanto un mistero irrisolto: l’indifferenza della Magistratura. Se i duemila partecipanti alla manifestazione di Predappio possono sfoggiare con sfrontatezza la scritta “Arrestateci tutti!”, è perché sanno che tanto nessuno si muoverà. Sanno che in Italia, al massimo, le manganellate se le prendono quelli che la legge la vogliono far rispettare ad esempio gli studenti che al Porto di Catania chiedevano pacificamente umanità nei confronti di povera gente, sequestrata su una nave. E poco importa se anche i partiti di estrema destra (compresa la Lega) si sono dissociati dalla condotta di Selene Ticchi, che Forza Nuova abbia provveduto a sospenderla, perché questo non basta. Non è sufficiente. È necessario che Selene Ticchi perda il sorriso che ha nella foto che ha fatto il giro dei giornali ricevendo un avviso di garanzia per apologia del fascismo; ed è necessario che questo succeda a tutti quanti lo facciano con disinvoltura e impudenza. Serve solo che non vi sia quell’indifferenza che rende complici. Servirebbe capire che la storia è passato ma diventa velocemente presente, che se dopo un terremoto non metti fondamenta solide meriti di restare sotto i calcinacci la volta successiva. Serve, semplicemente, che qualcuno faccia rispettare le leggi a tutti, anche a coloro i quali che non hanno capito che in Italia non è reato portare la pelle nera, ma la maglia.

Federico Santagati

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Un’altra strada è ancora possibile

Oggi è un giorno felice perché Emiliano ha deciso di scrivere nel mio blog. E sarebbe bello che tanti altri iniziassero a scrivere in questo spazio: per confrontarci, offrendo spunti di riflessione; per invadere la rete, a discapito di chi il web lo usa solo per condividere fake news; per sentirsi più vicini, come nel caso di Emiliano che scrive da Londra ma che sento qui, con la mano sinistra sulla mia spalla e una birra in quella destra. “Alla salute amico mio” e benvenuto su “Indegno di nota”. Un’altra strada è ancora possibile, da New York a Motta Sant’Anastasia.

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Alexandria Ocasio-Cortez è un nome che difficilmente può dirci qualcosa, specialmente in Italia. Eppure, dall’altra parte dell’oceano, è sulla bocca di molti. Forse persino il presidente Trump nelle ultime settimane le ha dedicato più di un pensiero (non troppo amichevole, probabilmente). Alexandia è un’educatrice e attivista ventottenne di origini portoricane del Bronx. La scorsa estate ha sconfitto il deputato veterano Joe Crowley alle primarie democratiche per il congresso del 14esimo distretto di New York.

Uno stage durante la seconda campagna di Obama e poi la partecipazione attiva in favore di Bernie Sanders nel 2016; la sua carriera politica è brevissima e fulminante. Oggi i bookmakers danno per scontato che, alle lezioni di Midterm di Novembre, sarà la donna più giovane ad essere mai entrata al Congresso, nella storia degli Stati Uniti d’America.

A giugno del 2018 il premier spagnolo Mariano Rajoy ha rassegnato le dimissioni a seguito di uno scandalo che ha colpito il suo partito. Il leader del partito socialista Pedro Sánchez, fino a quel momento alleato in maggioranza, ha formato un nuovo esecutivo insieme a Podemos, ai separatisti catalani e agli indipendentisti baschi. La manovra finanziaria da poco varata del governo spagnolo è un’acrobazia mozzafiato: aumento delle pensioni e dei salari, investimenti per ricerca e istruzione, aumento delle tasse per i ricchi, patrimoniale all’1% (per chi ha un patrimonio di più di 10 milioni), incentivi per l’ambiente. Una manovra espansiva, che pur aumentando il deficit dall’1,3% all’1,8% non ha spaventato i mercati (figuriamoci l’Europa), né scatenato le furie del Babau e dell’uomo nero.

I due eventi sembrano tra loro totalmente scollegati. In realtà sono tenuti uniti da un filo molto sottile e coriaceo. La vittoria di Alexandria Ocasio-Cortez e il nuovo governo spagnolo sono piccoli baluardi difensivi; segni di una resistenza sotterranea e agguerrita. Sono segnali di fumo per un intero universo di idealisti e sognatori, disorientati e travolti dalla furia devastante degli ultimi decenni. Sono le fondamenta sui cui iniziare a ricostruire, mattone dopo mattone, un futuro e una proposta politica diversi, lontani tanto dai voli pindarici e – spesso – crudeli del populismo, quanto dal racconto falso e ipocrita dell’iperliberismo globalista.

Messi insieme ci raccontano che forse è ancora possibile creare un’idea di politica che si collochi in mezzo tra il dare tanto ai ricchi perché così un po’ poi va anche ai poveri e il togliere a tutti perché è meglio a nessuno che a pochi.

Nel 2016, il senatore del Vermont Bernie Sanders ha rischiato di vincere le primarie democratiche per la presidenza degli Stati Uniti con un programma tutto incentrato sugli ultimi e sui dimenticati: sistema sanitario gratuito e universale, sussidi ai poveri, incentivi allo studio e alla ricerca, controllo sulla finanza, salario minimo. Ha mobilitato masse di giovani in tutta la nazione, cha hanno marciato, lavorato, sudato, digiunato, viaggiato pur di seguire lui e il suo progetto. Per sconfiggerlo Hilary Clinton ha dovuto ricorrere a tutte le sue armi, ha dovuto dispiegare la forza brutale e repressiva del partito. Per questo la sua è stata una vittoria pagata a carissimo prezzo: la presidenza stessa degli Stati Uniti.

Una cosa simile è accaduta nel Regno Unito nel 2017, dove la Premier Theresa May ha convocato le elezioni anticipate, forte di un vantaggio di 21 punti percentuali nei confronti del Partito Laburista. Un vantaggio che però il leader del labour Jeremy Corbyn ha saputo ridurre di più della metà in pochi mesi. E lo ha fatto con un manifesto semplice e chiaro: meno soldi alle aziende private e più soldi per il sistema scolastico e sanitario, meno privatizzazioni e più sussidi statali per i poveri e i lavoratori, meno fondi di investimento e più sindacati. L’elezione si è trasformata per la May (che aveva avviato la campagna con il più sbruffone dei sorrisi) in un incubo: i Tories hanno perso 13 seggi in parlamento – e la maggioranza assoluta –, mentre i laburisti ne hanno guadagnati 30.

Alexandria Ocasio-Cortez è convinta che la sua vittoria alle primarie sia frutto di una grande voglia di riscatto e rappresenti la rivincita di un’intera comunità. Il suo spot elettorale è un pugno in pieno petto, una sveglia e un richiamo. Uno spot totalmente credibile solo perché credibile è la persona che lo ha ideato. Alexandria ha fatto campagna elettorale a bassissimo budget, con il supporto di una rete di volontari e senza l’appoggio della macchina del partito. Una campagna alla vecchia maniera, porta a porta. Nei mesi prima del voto ha girato centoventimila abitazioni (centoventimila!). Ha parlato ai suoi elettori (e non), ha bevuto il caffè nei loro salotti, giocato con i loro figli, ed ha ascoltato i loro problemi guardandoli negli occhi. C’è una sola cosa contro cui Alexandria si batte: un mondo che opponga i grandi capitali alle persone. E ai suoi elettori ha donato un solo bene, ma tanto prezioso quanto raro: the hope, la speranza.

La sua storia mi ha portato in mente le imprese di un altro gruppo di idealisti e volontari, sognatori e visionari. Non era la grande America del sogno infinito, ma un piccolo paesino della Sicilia orientale. Dove un gruppo di folli bussava alla porta della gente per portare un po’ di buonumore, sfidava con pochissime risorse forze infinitamente più grandi di loro, perdeva con il sorriso dei puri e degli illusi; un gruppo che ancora oggi spera che le ferite di ieri si possano trasformare negli stimoli di domani. Quel gruppo di matti ha perso l’elezione, ha perso la battaglia e forse, a poco a poco, ha perso anche la guerra. Eppure, è riuscito a instillare in qualcuno l’idea (forse in pochi e forse solo per un attimo) che, anche nell’isola dell’immobilità, ci sia ancora spazio per la speranza e il cambiamento. E di questo ne vanno fieri.

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Il vostro carrozzone, la nostra Locomotiva (scrive Samuel)

Abbiamo scelto il nome del primo comitato Possibile catanese. Si chiamerà “La Locomotiva”. Un nome che ha, naturalmente, un significato ben preciso. Un nome proposto in assemblea da Samuel Boscarello, un ragazzo che sprigiona entusiasmo e voglia di fare ad ogni parola pronunciata. Per questo, anziché avventurarmi nello spiegare il nome, ho chiesto proprio a Samuel di scrivere qualche riga sul perché della scelta.

Scegliere un nome è sempre difficile. Del resto “le parole definiscono il mondo”, diceva Giorgio Gaber in Destra-Sinistra. Ecco, noi siamo di Sinistra. Con la esse maiuscola, perché ne andiamo orgogliosi e crediamo nelle nostre idee. Questo è un altro punto fondamentale, perché “destra” e “sinistra” sono dei contenitori: cosa ci sta dentro lo decide il presente. In centocinquant’anni siamo passati dalla sinistra liberale di Depretis a quella mazziniana, poi fu la volta del Partito socialista italiano e, più tardi ancora, dei comunisti. E oggi? C’è chi predica la morte delle ideologie, crollate insieme ad un muro durante l’autunno tedesco del 1989. Ma nei tempi in cui la politica ha reso normale cambiare partito in base al proprio tornaconto, è necessario che si torni ad agire sulla base di ideali e passioni, le forze vive che possono far rinascere una democrazia come quella nostra, che ha perso anche la fiducia dei cittadini. Questa è La Locomotiva, una macchina a vapore che traina gli altri vagoni, senza gerarchie né superiorità. Il treno della Sinistra ha bisogno di nuovo carburante per muoversi sulle rotaie della storia: cooperazione, solidarietà, giustizia sociale, ecologia e pacifismo sono i valori che ci animano e spingono tutti noi ad immaginare un avvenire nuovo, senza sfruttamento e oppressione, in cui la democrazia possa espandersi in ogni settore della società e dell’economia, spazzando via vecchi privilegi e rapporti di forza. Belle parole e nient’altro? Venite a vedere con i vostri occhi. Molti di noi hanno lasciato il Pd, rifiutandosi di salire sul carrozzone del renzismo, alcuni hanno scoperto qualcosa in cui scommettersi per la prima volta, altri ancora sono tornati a bordo dopo essere scesi ai tempi dei Democratici di sinistra. Ci sono gli ex Pci e i giovani che non hanno conosciuto Berlinguer, ma il bello è proprio questo: i primi stanno ad indicarci da dove veniamo, i secondi ci dicono dove andiamo. Questa è la nostra identità, il motivo principale per cui abbiamo scelto questa canzone di Guccini per il nome del Comitato Possibile di Catania: da una parte la storia tragica dell’anarchico Rigosi, vissuto “ai tempi in cui si cominciava la guerra santa dei pezzenti”, dall’altra l’augurio di speranza per il futuro espresso alla fine del brano. Un augurio che vogliamo dedicare a tutti quelli convinti che la macchina si sia fermata per sempre e vada rottamata, magari sostituita con una bella Tav.   “Ma a noi piace pensarlo ancora dietro al motore Mentre fa correr via la macchina a vapore. E che ci giunga un giorno ancora la notizia Di una locomotiva, come una cosa viva Lanciata a bomba contro l’ingiustizia.”   Ecco, voi tenetevi il carrozzone. Noi preferiamo essere quella locomotiva.

Allora, buon viaggio a tutti noi! p.s. chiunque fosse interessato a partecipare alle riunioni potrà usare questo gruppo facebook: Catania #Possibile treno_vapore

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Mi scrive Francesco

uno di quei ragazzi che di politica non ne voleva proprio sapere. L’ho conosciuto deluso, sconfortato, disilluso. Oggi, dopo aver toccato con mano il progetto liberamotta, Ciccio è uno dei ragazzi più attivi del gruppo. Uno dei piccoli miracoli di questo percorso. Bastano episodi come questo per farmi capire che siamo sulla strada giusta, con una prospettiva a lungo termine. Perché la pratica politica non si cambia solo nei mesi precedenti le elezioni.

Non è facile capire quali siano le ragioni che spingono sempre più lontano i giovani dal mondo della politica, ma provando a ipotizzare una risposta troverei di sicuro fattori conosciuti a noi tutti, a noi cittadini, uno di questi potrebbe essere la visione collettiva della politica, una visione negativa e che lascia spazio solo alla degenerazione, all’impossibilità di cambiare. E’ da diverso tempo che nei bar e nelle piazze si ascoltano le solite frasi : “I politici sono tutti ladri”, “la politica è una cosa sporca”,”il mio voto non cambierà le cose”, questi sono fra i pensieri più comuni, le famose frasi sempre uguali che passano da una bocca all’altra quasi fossero malattie, ma è anche vero che frasi del genere, pur essendo frutto di pigrizia mentale, partono e si sviluppano grazie alla realtà che è possibile riscontrare in esse. Si potrebbe, inoltre, parlare di come il termine cittadino abbia perso quel significato che in passato, soprattutto nel periodo del boom economico, induceva i giovani ad interessarsi di politica, poiché considerata strumento per partecipare al mutamento del paese. Oggi nel rapporto tra giovani e politica, qui a Motta, manca un tassello importante, il supporto di una consulta giovanile, che faccia da traghettatore e riduca le distanze, per aspirare così ad una politica più giovane e propositiva. La consulta è un organo di proposizione e di consultazione sulle realtà giovanili. Essa si configura come strumento di partecipazione giovanile alla vita civica del paese, è un mezzo privilegiato per fa sentire l’opinione di noi giovani, un’occasione di diventare protagonisti dei processi decisionali. Sono molte le azioni affidate alla consulta e nessuna di esse è di scarso rilievo, difatti può coordinarsi con consulte presenti in altre regioni, provincie e comuni. Promuove progetti, incontri e dibatti pubblici su temi attinenti alla condizione giovanile. Favorisce il rapporto tra gruppi giovanili e Istituzioni. Propone al Consiglio Comunale e alla Giunta Comunale progetti ed iniziative volte a prevenire e recuperare i fenomi di disagio giovanile. Quest’istituzione dovrebbe, quindi, essere realtà di ogni comune, oggi come non mai si ritrova ad essere una speranza di rinnovamento, che ci è distante solo qualche passo di volontà e nulla più.

Proprio riparlando di futuro, penso che l’istituzione della Consulta Giovanile, già prevista dal nostro Statuto comunale (proposta per la quale mi sono speso negli anni passati [inutilmente]), sia indispensabile per provare a cambiare il nostro paese con lo spirito dei più giovani. Con l’entusiasmo di chi la politica la respira con narici sane, annusando il mondo per quello che è, senza filtri e senza mollette. Forza ragazzi, il futuro è vostro/nostro.

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Mi scrive Giuseppe

che non è di Motta. Ma che, come Motta, vive nel mondo. Quel mondo che accomuna tutti e dovrebbe accomunare anche i grandi temi e la conquista dei diritti. Giuseppe è gay e mi scrive della sua esperienza. Vive con Sean e per sposarlo è dovuto andare in America: “Quando il 26 Giugno del 2013 la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, decise di eliminare la Sezione 3 del DoMA (Defense of Marriage Act), il mio cuore impazzì di gioia. Io e Sean sapevamo che sarebbe accaduto e per tal ragione pianificammo la data del nostro matrimonio per quello stesso giorno a New York City. Finalmente due anni di incertezze, di barriere e di stress potevano considerarsi conclusi. Prima della morte del DoMA, infatti, matrimoni come quello tra me e Sean erano vietati in America. Se non ci fosse stato un intervento in merito, oggi io e mio marito ci ritroveremmo a chilometri di distanza, separati da una legge ingiusta ma, fortunatamente, viviamo nello stesso appartamento a New York, studiamo per diventare rispettivamente io medico e lui avvocato, lavoriamo, ci occupiamo dei nostri tre cuccioli e ci riteniamo una famiglia come le altre, sicuramente più fortunata di tante. Da Italiano, sogno che un giorno nessun mio compatriota dovrà rinunciare all’amore a causa di un Parlamento di nullafacenti ed incompetenti o di una Corte Costituzionale impotente. I matrimoni gay in Italia non sono vietati dalla Costituzione, ma non esiste comunque alcuna forma ufficiale di riconoscimento. L’estensione del matrimonio civile alle coppie dello stesso sesso in Italia porterebbe all’altare migliaia di coppie conviventi, oggi non viste come “famiglia”. Sarebbe la fine di decenni di discriminazioni che hanno visto Italiane ed Italiani derubati della possibilità di vedere partner gravemente malati o in punto di morte in letti ospedalieri, perché non considerati famiglia immediata. Chi ha amici gay e vede loro nascondere le loro vite nell’ombra della vergogna e del pregiudizio, chi conosce coppie coppie che giornalmente combattono per la piena uguaglianza, chi vede nelle televisione pubblica l’uso stupido ed inadeguato della parola “frocio” e le risate di personaggi che dovrebbero rappresentare il paese è cosciente della problematica Italiana. Dato che a livello nazionale non esistono speranze, ritengo che per il momento occorra lavorare dal basso. È necessario iniziare dai comuni. Motta, per esempio, è un comune di quasi 12.000 abitanti. Approvare le unioni civili a Motta Sant’Anastasia sarebbe innanzitutto una lezione di democrazia, perché una simile mossa metterebbe in luce delle realtà normalmente nascoste. Oltretutto, verrebbe garantito l’accesso a diritti non di poca importanza a numerose coppie di conviventi di sesso uguale o opposto che risiedono già nel territorio. Motta Sant’Anastasia diventerebbe il 156esimo comune in Italia ad approvare una simile legislazione e sicuramente potrebbe far parte di quella spinta nazionale verso un paese più giusto. Io invito i Mottesi a non trascurare certe problemati perché non migliorerebbero solamente la qualità dei servizi che il comune offre ma avrebbero pure una grossa rilevanza a livello regionale e nazionale“.

Sbaglio a dire che nel nostro programma saranno forti i temi dei diritti civili? Potrei tacere e far finta che non esistano (così come faranno gli altri candidati). Invece ne parlo e voglio che se ne parli. Nel nostro programma prevederemo l’istituzione del registro delle unioni civili e lo faremo con emozione, con orgoglio. Perché i ragazzi come Giuseppe non dovrebbero fuggire negli Stati Uniti d’America per poter amare liberamente. Spero che la nostra vittoria faccia si che ogni cittadino possa amarsi alla luce del sole, ottenendo gli stessi diritti di chi è considerato un normodotato in fatto di sentimenti.

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Mi scrive Nawal

una ragazza che dedica la propria vita al sociale, al volontariato, ai diritti umani. Con i suoi grandi gesti, Nawal lavora per rendere la vita dei fratelli immigrati ed extracomunitari una vita che goda di quanti più diritti è possibile. A tal proposito sogna che il suo paese possa essere “settimana della cultura” per sempre: “Con la bella stagione, Motta si rinnova. Dalla scuola elementare e media arrivano profumi e sapori lontani (nemmeno troppo) e vesti variopinte, simbolo di tradizioni genuine ed antiche, nell’abbraccio delle diverse culture che caratterizzano questa piccola e grande comunità propria del nostro paese. La settimana della cultura si presenta nel sole del Mediterraneo, che porta un assaggio dei paesi Nordafricani, facendolo incontrare e mixare al sapore di una Sicilia da sempre abituata alle pluralità nella società; pluralità che l’hanno caratterizzata profondamente ed hanno disegnato i contorni di un’isola ricca di influenze e, allo stesso tempo, sicura della propria identità. Dalla scuola, nido della personalità di ogni individuo, nasce questo bel messaggio di convivenza, ma non solo, di integrazione. Eppure, la settimana della cultura dura, appunto, una settimana… e tutti gli altri giorni dell’anno? La nostra Motta è costellata di tante comunità diverse; lo scirocco soffia tra i capelli sciolti delle siciliane, cosi come sugli hijab, i veli, delle giovani egiziane. Arancini e cus cus vengono serviti allo stesso tavolo ed io, personalmente, mi ritrovo a parlare in arabo, mentre un istante prima ero impegnata in una discussione in puro dialetto siciliano. La vedete anche voi? Vedete la ricchezza di Motta, la stessa ricchezza che ha sempre reso la Sicilia, in generale, tesoro storico e culturale agli occhi di tutti? Motta è un paesaggio in cui realtà diverse si sfiorano; realtà diverse e complementari, eppure parallele. Come linee rette, vicinissime tra loro, si sfiorano e sembrano non incontrarsi mai realmente. Se la Settimana della Cultura non si fermasse ai sette giorni, se si creassero spazi e più occasioni per conoscersi e comunicare, la nostra comunità ne trarrebbe solo giovamenti. Motta, già di per sé un gioiello, diventerebbe un vera perla rara”. Credo che con l’aiuto di Nawal sarà più facile proporre la creazione di una consulta dei rappresentanti degli immigrati. Che possa favorire l’incontro e il dialogo fra portatori sani di culture differenti, incentivandone l’integrazione nell’ambito della tutela dei diritti, dell’istruzione e della salute. Un luogo che possa abbattere ogni forma di razzismo e di isolamento etnico. Insomma un qualcosa che assomigli molto al sogno di Nawal. Un punto del programma pensato anche per chi non è elettore, non potrà votare e quindi, agli occhi di molti, escluso da programmazione, da promesse e da sogni. I sogni (e i diritti) almeno quelli lasciamoli in pace. Appartengono a tutti, allo stesso modo, senza distinzione alcuna.

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Mi scrive Mauro

che, per chi non lo sapesse, è un campione Mottese di skateboard. Uno di quelli che si è fatto da solo, con sacrifici, dedizione e umiltà. Più volte ho avuto il piacere di parlare (oltre che di crescere) con Mauro. Aveva un’idea: realizzare uno skatepark nel proprio paese, anche se: “il vero skateboarding si fa in strada, in giro, dove c’è il rischio, dove ti fai cacciare dalla gente per tornarci il giorno dopo e sperare; lo skateboarding lo fai in giro per il mondo, viaggiando e vedendo posti assurdi“.

Realizzare uno skatepark è una cosa che inseriremo nel nostro programma. Si tratta di una piccolissima opera, certo. Ma realizzare i sogni di chi vive di sogni è una delle cose che la politica che pratico si premura di raggiungere. Continua Mauro:  “Non ho mai visto uno skatepark, vero e proprio, in tutta la Sicilia. Agli inizi quando lo proponevo, nessuno mi ha mai appoggiato come si deve…per anni magari sono stato anche deriso da molte persone“. Lui intanto, tra le strade del nostro paese, senza mai un aiuto da parte di nessuno è riuscito a realizzarsi: “Ho sempre spinto da solo e così andrò avanti! Oramai sono anni che viaggio in giro per il mondo. Ho degli sponsor che mi pagano, mi supportano e mi rappresentano. Sono una persona molto felice e ogni giorno non vedo l’ora di alzarmi e andare avanti, dato che la mia vita non e’ altro che avventura allo stato puro! Molta gente magari non sa tutto ciò, magari il sindaco non ha idea che uno dei suoi cittadini è una persona che ha vinto il campionato italiano ed è riconosciuta in tutto il mondo…ma arrivato ad un certo punto ti dico…che posso farci?? Io ho iniziato, ho continuato solo e per me non potrebbe andare meglio di così! Certa gente non capirebbe mai. Non penso proprio che lo skateboard sia uno dei problemi principali per questa gente! Siamo in un paese troppo corrotto, la mentalità della gente è troppo marcia“.

Hai ragione. E la tua storia rafforza la mia ragione. Ho sempre pensato che il perseguimento delle passioni possa portare in alto. Tu ne sei l’esempio. Un esempio con dedica rivolta a chi crede che inseguire i propri sogni non porti mai a raggiungerli.

mauPotrete visionare le prodezze di Mauro cliccando QUI.

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