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Quando lo sport incontra la politica

Ci sono parecchie cose che non sappiamo, ciascuno di noi. Perché le ignoriamo, perché non ci interessano, perché nessuno ce le ha mai dette. E poi ci sono cose che semplicemente non si possono ignorare. Per esempio, sappiamo tutti chi sia Valentino Rossi, Cristiano Ronaldo, Maradona, Michael Jordan. Stelle dello sport, fenomeni eccezionali che hanno esaltato gli appassionati con i loro numeri. Così come sappiamo tutti che Usain Bolt è l’uomo più veloce del mondo, forse il più veloce della storia.

Non sappiamo invece che del circolo ristretto dei velocisti di tutti i tempi fa parte anche un certo Thomas C. Smith, meglio conosciuto come Tommie. Il primo uomo che si ricordi ad essere sceso sotto il muro dei 20” nei 200 metri. Alla fine degli anni ’70 Tommie Smith aveva già battuto il record dei 100, dei 200 e dei 400 metri. Era l’uomo più veloce del pianeta. Ma nessuno lo ricordava già più; così come nessuno lo ricorda oggi.

Nel 1968, ai Giochi Olimpici di Città del Messico, giusto dopo avere infranto il record dei 200, Tommie compì un gesto che non gli fui mai perdonato: siamo nel bel mezzo della premiazione, Tommie Smith sale sul gradino più alto del podio; un po’ più in basso sta il suo connazionale John Carlos, medaglia di bronzo; attorno a loro i 63mila spettatori dell’Estadio Olimpico Universitario e il mondo intero. Gli atleti ricevono le loro medaglie, il pubblico applaude, attacca The Star-Spangled Banner, l’inno americano. A quel punto, Tommie e John fanno due cose in sequenza, banali quanto estreme: abbassano piano la testa e alzano in aria due pugni guantati di nero. Il silenzio nello stadio si fa all’improvviso irreale. Nessuno ha la forza di fiatare. L’inno procede mentre i due velocisti rimangono così, immobili, come statue greche. E così rimarranno nell’immaginario collettivo. In eterno.

Tommie Smith e John Carlos non sono stati solo formidabili atleti olimpici; erano anche due attivisti. Due attivisti afroamericani. E quel pugno alzato di fronte al mondo era il gesto simbolo del black power, il movimento che negli anni sessanta si batteva per i diritti dei neri d’America. Quei due uomini soli di fronte al mondo avevano osato piantare lo spillo della politica dentro il cuore tenero dello sport, il regno dell’intrattenimento puro. E per questo furono dannati per sempre.

Colin Kaepernick è l’ex quarterback dei San Francisco 49ers. Un più che discreto passatore, un fenomeno nella corsa palla in mano. Nel 2013 disputò la 47esima edizione del Super Bowl a New Orleans, contro i Baltimore Ravens. Perse per soli tre punti, 34 a 31. Ma nessuno lo ricorda per questo. Tre anni dopo Kaepernick si rese famoso per un’altra impresa, ben più importante e molto meno sportiva: nel pre-partita di un gara NFL, si inginocchiò nel bel mezzo dell’inno americano.

Era il suo modo per protestare contro l’amministrazione di Donald Trump e contro la discriminazione, più presente che mai nel Paese, nei confronti degli afroamericani. Fu un gesto coraggioso, che ne inspirò altri. I giocatori afroamericani del football americano iniziarono uno ad uno a inginocchiarsi prima delle partite. Poi seguirono i giocatori di MLB, la lega di Baseball professionistico americana. Poi iniziarono a inginocchiarsi anche i bianchi, in segno di solidarietà. Non erano tutti a farlo, certo, solo quelli che sentivano di avere una causa per cui battersi, eppure erano già in parecchi. Una protesta silenziosa, pacata e pacifica, che proprio per questo fece tremare le istituzioni. Un gesto che doveva smettere al più presto. Il presidente fece pressioni sulle Leghe che, a loro volta fecero pressione sulle squadre, che fecero pressione sui giocatori. Lentamente la protesta fu arginata.

Colin Kepernick è oggi un disoccupato. Nessuna squadra ha accettato di offrirgli  un contratto. Qualche mese fa il giocatore ha citato per danni l’intera NFL.

Il concetto di fondo che si nasconde dietro le storie di Tommie e Colin è lo stesso: lo sport e la politica devono rimanere due mondi separati, e guai a mischiarli. Uno stadio non è il luogo adatto per dar voce alle proprie idee politiche. Ma bensì un punto di ritrovo e di mera evasione, momento di riposo e distrazione dalle fatiche della vita. . Non si può essere sportivi e attivisti allo stesso tempo.

Ho sempre pensato che “attivista” sia una delle parole che suonano più strane nella lingua italiana (e probabilmente anche nelle altre). Perché è una parola che non ha un contrario. Esiste un attivista, ma non esiste un “passivista”. Ne ho dedotto che il contrario di attivista infatti, siano tutti gli altri. Siamo noi. Siamo tutti noi nel momento in cui voltiamo lo sguardo, ci spingiamo a non guardare, ci convinciamo che quella cosa che ci sta succedendo attorno forse non sta poi proprio succedendo, che quel problema che ci riguarda da vicino, forse poi non riguarda proprio noi. Che i politici corrotti, i maltrattamenti sul lavoro, le morti bianche, le discariche abusive, i disservizi sociali, lo sfruttamento dell’immigrazione non siano cose per cui ci spetti di sacrificare il nostro “tempo libero”.

I non-attivisti siamo tutti noi che ci obblighiamo a un costante sforzo di distrazione, anche mentre l’orrore e l’ingiustizia intorno a noi stanno dilagando (inutile fare qui delle citazioni storiche: sarebbero davvero troppo facili e ovvie).

Forse per questo, l’idea che la politica e lo sport debbano stare separati è una delle cose che forse mi trova più in disaccordo su questa terra. Lo sport è in un certo senso politica allo stato puro: è un momento di incontro, di scambio (anche se solo di emozioni e calore), di scontro (si spera simbolico), di condivisione. Rimango pertanto convinto che uno stadio olimpico – lo stesso in cui centinaia di atleti di colore gareggiano per il piacere e la goduria delle folle – sia il posto più giusto in cui gridare, per dirne una, che i neri sono esattamente uguali bianchi e che alla stessa maniera vanno trattati. Anche se alla fine non lo si grida, e ci si limita ad alzare un pugno in aria.

Credo che di questa cosa fosse cosciente anche lo stesso The Donald. Altrimenti non si spiega il perché abbia cercato di sopprimere la protesta dispiegando tutte le armi a sua disposizione. Il presidente sa bene che una coscienza, una volta svegliata, è molto difficile da rimettere a nanna.

Vengono in mente, in conclusione, le parole che Martin Luther King scrisse nel 1963, nella lettera dalla prigione di Birmingham: «La più subdola barriera per i negri, lungo il loro percorso verso la liberta, non è il suprematista bianco o il membro del Ku Klux Klan, ma il moderato che è più devoto all’ordine che alla giustizia; che preferisce una pace forzata, che è solo l’assenza di tensioni, a una pace reale che è lo sprigionarsi della giustizia; che dice costantemente, “sono d’accordo con il tuo obiettivo, ma non posso accettare i tuoi metodi d’azione”» (mia la traduzione).

Tommie Smith non fu invitato alla Casa Bianca come tutte le altre medaglie d’oro, dopo la sua storica vittoria a Città del Messico, nel ‘68. Ad invitarlo ci ha pensato, quasi cinquanta anni dopo, un altro presidente, nel tentativo di riabilitare la sua memoria: Barack Hussein Obama. Per l’occasione Tommie portò in omaggio una foto che lo ritrae mentre riceve la staffetta nella 4×400 del 1966 (con quella squadra con cui aveva infranto l’ennesimo record del mondo). Dietro la foto c’era scritto «il testimone non è caduto».

Si riferisce allo stesso testimone che tutti noi conosciamo benissimo: quello che ci siamo visti passare infinite volte nel corso della nostra vita, mentre guardavamo la tv, ascoltavamo una canzone, leggevamo un libro, camminavamo per strada, bevevamo con gli amici; quello che ci è viene teso ogni volta che vediamo una stortura o una vessazione. E ogni volta che ciò accade ci si spalancano di fronte tre possibilità: possiamo girarci dall’altra parte e fare finta di nulla; possiamo prenderlo con noncuranza e poi lasciarlo cadere; oppure possiamo stringerlo forte e iniziare a correre. Correre con tutte le nostre forze.

 

Lo spunto per questo pezzo nasce dalla lettura di un articolo pubblicato su “The Atlantic” e tradotto su “Internazionale”  n. 1277

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